Archeologi che scavano tra le carte

“Anche io volevo fare l’archeologo”, mi dicono. Succede ogni volta che dico di aver studiato Archeologia in età, diciamo, matura. Ho studiato per passione, con la volontà ferma di poter dare un contributo per l’archeologia del mio territorio.

Non pensavo che sarebbe stato così difficile farsi ascoltare e, soprattutto, ottenere risposte al momento opportuno.

Alcuni anni fa, mentre stavo componendo la mia tesi sulla Protostoria del Lodigiano e dei territori adiacenti, pensai di concludere degnamente il lavoro collegando la ricostruzione storico-archeologica che stavo cercando di tracciare per le fasi preistoriche (prima dell’VIII a.C.) con le epoche più recenti, quelle della trasformazione del territorio gallico conquistato in provincia romana. Nativa di S. Angelo Lodigiano e particolarmente legata a questa terra, non potei fare a meno di tornare con la mente ai ricordi del museo archeologico di S. Angelo, quello allestito dal celebre Monsignor Nicola De Martino, di cui mia nonna mi raccontava da piccola, mettendo inconsapevolmente una seria ipoteca sui miei interessi culturali futuri.

La sezione archeologica, si racconta, oltre ai pochi reperti oggi rimasti in castello, comprendeva diversi oggetti raccolti dal parroco nel corso del tempo e trasferiti poi presso il Castello Morando Bolognini, fulcro culturale del paese. Il parroco, infatti, era uomo di fiducia della contessa Lydia Caprara, vedova del conte Gian Giacomo Morando Bolognini, e venne incaricato di completare gli allestimenti del nascente Museo Morando Bolognini.

Proprio dal Museo Bolognini partì nel 2014 la mia ricerca di notizie riguardanti i reperti archeologici ritrovati a S. Angelo Lodigiano.

La scoperta che i reperti erano stati prelevati alcuni anni fa dalla Soprintendenza, mi lasciò inerme e amareggiata: da laureanda agli sgoccioli con la tesi, avrei avuto poche chance di riuscire a visionare i reperti entro il 15 febbraio 2015, giorno della mia discussione sulla Protostoria del Lodigiano e territori adiacenti presso l’Università Statale di Milano.

Dei reperti di Don Nicola, al castello, era rimasto solo uno scarno elenco di 55 oggetti, che purtroppo non fu di alcuna utilità, dal momento che riportava solo la denominazione di base di ciascun reperto.  “Olla in ceramica comune, coppetta a piede, brocca, fuseruola”. La presenza di una fuseruola, considerata la mia passione per la tessitura, mi mise ancora più tristezza per non poterne sapere di più.

Trovai solo alcune considerazioni sui reperti romani su un paio di libri di storia locale dal taglio divulgativo. Anche i tentativi di trovare studi attorno a questi reperti andarono a vuoto: in effetti trovai indicazioni riguardo una tesi di laurea su una parte dei reperti, discussa anni fa presso una università milanese, e cercai di prenderne visione, ma mi scontrai con la burocrazia universitaria che, per concedere il lavoro in consultazione, prevedeva il possesso di un’autorizzazione rilasciata dall’autrice. Inutile dire che anche i tentativi di contattare l’autrice, che scoprii oggi docente presso un istituto superiore lodigiano, rimasero senza risposta.

L’Archeologia, però, è una malattia e, una volta contagiati, non si guarisce più, soprattutto se ciò che ti interessa fa parte dei tuoi geni, delle tue origini.

Raccolsi e appuntai quante più notizie possibili, ma ormai il tempo a disposizione per la mia ricerca era agli sgoccioli. Discussi con lode la tesi e tenni da parte tutte le notizie raccolte, perché, mi dissi, prima o poi avrei proseguito la mia indagine.

Dopo la laurea, come spesso succede, specie alle neolaureate non di primo pelo come me, il sogno di tornare sullo scavo e dare la propria vita in pasto a cazzuola e scopettino, in nome della scienza archeologica, si dissolse poco alla volta nei mesi successivi.

Così, come tutti gli archeologi che non scavano, ho iniziato l’attività professionale nel settore dei beni culturali: strada irta di ostacoli, quando intrapresa caparbiamente lontano dalla città, principalmente perché questo tipo di lavoro è confuso o percepito spesso come attività di volontariato.

I reperti archeologici di Don Nicola rimanevano sempre lì, sempre annotati su quel foglio, come quello che tieni in tasca con la lista della spesa e, ogni volta che lo tocchi con la mano, ti torna in mente che devi passare al supermercato.

Per destino, e soprattutto per tenacia, sono finita a fare la guida “conto terzi” proprio per i musei del Castello Bolognini e più volte mi sono ricordata della lettera che mi avevano mostrato e che giaceva lì da qualche parte negli armadi dell’archivio. Una lettera scritta dal direttore del museo di alcuni anni fa, che chiedeva alla Soprintendenza la restituzione dei reperti.

Sembra infatti che i reperti, di fatto proprietà dello Stato, vennero prelevati dalla Soprintendenza in seguito alla notizia del furto che avvenne nel 1991 al castello: allora il museo non era dotato nessun sistema di allarme e i ladri ebbero vita facile nel prelevare nottetempo in tutta tranquillità una quantità di oggetti, sia piccoli che di dimensioni più importanti.

Anche il Museo civico di Lodi, in quegli anni, fu oggetto di visite da parte dalla Soprintendenza, che mandò funzionari con lo scopo di prelevare oggetti di proprietà statale “indebitamente” là conservati e di inserirli, a volte con motivazioni quantomeno criticabili, in altri musei del territorio.

Fino a qualche anno fa, le azioni della Soprintendenza erano guidate da idee di massima prudenza e autorità, in certi casi percepite dalla gente come “potere”  verso il patrimonio che ricadeva sotto la sua tutela e, l’ottemperare rigidamente a questi compiti, generava un senso di distanza dalle persone e dai territori. Ma i tempi sono cambiati, è intervenuto in cambio generazionale; soprattutto, il dibattito a favore di un’archeologia pubblica, già attivo da anni tra gli addetti ai lavori, sta iniziando ad avere benefico influsso anche sulle soprintendenze; il pensiero che guida questo indubbio cambio di passo è che non si può sperare di far comprendere alle persone l’importanza e la delicatezza del patrimonio archeologico, se chi si occupa di archeologia non mette al centro del proprio agire non solo la conservazione e lo studio, ma anche le persone che vivono sui territori interessati da ritrovamenti archeologici.

La lettera di risposta del Soprintendente di allora, dott. Angelo Maria Ardovino (come annotato nel mio “bigliettino in tasca”), alla richiesta del dott. Dalli, allora direttore della Fondazione Bolognini, ha un tono freddo e diventa quasi urtante quando cita la collezione di inizi ‘900 e i reperti archeologici prelevati negli anni ‘30 da “tal Nicola De Martino”. La risposta alla richiesta di restituzione fu negativa.

Ammesso che “tal” Nicola De Martino commise un errore prelevando i reperti archeologici di proprietà dello Stato italiano provenienti dallo scavo per la costruzione del ponte sul Lambro (dai dati raccolti dovrebbe essere quello sulla circonvallazione di S. Angelo), conoscendo il personaggio e il modo di lavorare degli operai negli anni ‘30, è certo che lo abbia fatto per non mandare disperse le vestigia di antichi santangiolini d’epoca romana e forse anche antecedente. È anche ipotizzabile che lo abbia fatto su incarico di quella che era la Deputazione Storico Artistica di Lodi. Si legge, infatti, nell’annata I serie II anno 1953 dell’Archivio Storico Lodigiano, organo ufficiale della Deputazione, che presso il Museo Morando Bolognini “Il Conservatore Mons. Nicola De Martino ha terminato i lavori di sistemazione di due sale che contengono il materiale preistorico e romano rinvenuto a S. Angelo e nei suoi dintorni”.

È quel “materiale preistorico” letto ai tempi della tesi sfogliando l’Archivio Storico Lodigiano, che mi è rimasto come un sasso nella scarpa a disturbare i sonni di questi anni: laurearmi per passione in età matura e non poter comprendere la mia città nella ricerca archeologica sul Lodigiano, pur sapendo che materiali preistorici sono stati trovati.

Dal momento che l’archeologo non scava solo nella terra e io sono bravissima a scavare nella carta, anche quando è virtuale, alla fine i reperti del mitico Don Nicola, in qualche modo, li ho ritrovati all’inizio di quest’anno e – pandemia permettendo – da qui posso ripartire con la mia ricerca e il progetto di valorizzazione per cercare di dare un piccolo contributo all’archeologia lodigiana.

Come trovare i reperti raccolti da Don Nicola

Per trovare i reperti occorre effettuare una ricerca guidata nella pagina del Catalogo generale dei beni culturali, allestito dal Mibact e Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione.

Procedi così:

vai sul seguente sito

http://www.catalogo.beniculturali.it/sigecSSU_FE/Home.action?timestamp=1604519333510

a sinistra, nel menù “Beni culturali” clicca “Beni archeologici” (è la prima voce)

nella pagina che compare, clicca “Vai alla ricerca guidata”

nella pagina che compare, alla riga “Dove” clicca “opzioni specifiche”

nei campi che vengono visualizzati inserisci:

la regione: Lombardia

la provincia: LO

il comune scritto in questo modo: Sant’Angelo Lodigiano

clicca su “cerca”

Scorri le tre pagine e scopri i reperti archeologici raccolti da Monsignor Nicola De Martino a S. Angelo e dintorni, prelevati dal Castello Morando Bolognini a cura della Soprintendenza archeologica negli anni ’90 e tutt’ora là conservati. Puoi cliccare su ciascun reperto per avere maggiori informazioni: tra le altre, si trovano anche i PDF delle schede di catalogazione, ancora intestate al Museo Morando Bolognini.

Anna Maria Rizzi

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